MARINA MENTONI



Marina Mentoni è nata Treia (MC). Vive e lavora a Macerata. Si è diplomata in pittura nel 1981 presso l'Accademia di Belle Arti della sua città ed è stata allieva di Magdalo Mussio illustre esponente dell'arte italiana che essa considera l'artista che più le ha trasmesso i fondamentali principi guida nella concezione del fare arte. La sua formazione con l'attività di restauro prima, esercitata per circa sei anni e quella di insegnamento poi, come docente di tecniche pittoriche presso l'accademia della sua città dal 1989, sono estremamente importanti per capire le componenti e le linee su cui si sviluppa oggi il suo lavoro artistico, caratterizzato dal rigore della ricerca e del metodo e da una disciplina critica e riflessiva sul proprio fare che attraversa nelle varie fasi tutta la sua pittura. Cosi potremmo dire che rispetto alle esperienze del ritorno alla pittura degli anni '80, la Mentoni può dire propri solo l'esigenza e il piacere del fare, mentre il suo lavoro si colloca lontano da ogni pratica sia di ripetizione manieristica che di prelievo citazionistico o di nomadismo fini a se stessi. Più che ad un concetto di postmodemità il suo lavoro sembrerebbe orientato a definire una sorta di nuova modernità per una linea di ricerca di sostanziale continuità, pur nella diversità, con pratiche astratte degli anni '60 e '70, non per una riproposizione di tendenza, quanto come via più propria di una piena coscienza critica, fatta di scelte, matrici formative e culturali, capace di ricercare e definire una propria identità artistica senza ricorrere a facili scorciatoie di memorie passatiste. L'opzione astratta viene assunta come ineludibile conseguenza di una precisa posizione storicistica, mentre la vocazione riflessiva che attraversa implicitamente il suo fare, ha gli antecedenti certamente più diretti nelle esperienze di matrice più razionale e progettuale della pittura degli anni '60 in artisti come Ad Reinhardt, in certa astrazione fredda e radicale legata al minimalismo americano e nelle correnti italiane degli anni '70 che proponevano un pensiero analitico, autoriflessivo della pittura nell'atto del suo farsi. Eppure, rispetto a queste pratiche artistiche, la sua mantiene quella complessità che la fa essere specchio del suo tempo e che non è riducibile a univoche e aprioristiche enunciazioni di principi o di intenti. Il suo lavoro non corrisponde ad un'autonomia autoreferenziale fine a se stessa di un'arte separata dal mondo, come potrebbe apparire, viste le componenti progettuale e analitica del suo lavoro. La sua pratica artistica e il senso che le è connesso non sono mai tautologici. Il margine di sospensione del giudizio e di interrogazione che la morfologia dell'opera rivela, la lega a tensioni diverse relative ad un sentire del presente, e alla lucida consapevolezza di un vuoto e di una crisi ineludibili che sono dell'arte come dell'esistenza. Proprio su questo fronte l'esercizio dell'arte per Mentoni oltre che in una prospettiva personale di salvaguardia di una propria identità e verità artistica sembra porsi anche in un orizzonte più ampio, di difesa dell'identità dell'arte come risposta al bisogno e alla necessità di opporre una strategia di resistenza e di affermazione di quei valori estetici di sensibilità, oggi fortemente tenuti in scacco dal mondo della comunicazione virtuale. Ponendosi dunque sul limite. sulla soglia di una possibilità a dire ancora con la pittura, la stessa mantiene una complessità mai coincidente con l'assunzione di meri parametri di logica e razionalità del fare. Alla fine degli anni '80, ad esempio, e nei primi anni '90, la sua pittura creava geometrie che erano dislocazioni, scarti e spostamemi di piani originati da variazioni tonali di colore e di trattamento delle superfici che mettevano in atto un dinamico gioco di ribaltamenti percettivi tra pieno e vuoto, interno ed esterno, luce ed ombra. Lo spazio della pittura manteneva ancora una componente visiva di proiezione illusionistica. Nel sovrapporsi di vari piani, nel loro moltiplicarsi come in uno specchio, nell'affermarsi e negarsi reciproco, lavorando sui margni e sugli slittamenti di geometrie precarie in cerca di un equilibrio sempre spostato e rimandato oltre, l'artista declinava luoghi del provvisorio, del non certo, del fiammentario. E' in questa sospensione che si innestava il senso, “ l'inevitabile labilità del percepire e l'estrema imprecisione del conoscere”, nella “consapevoleza che i suoi strumenti di approccio al reale sono provvisori e che la provvisorietà è una condizione esistenziale ineludibile”. Circa intorno al '93 inizia per Mentoni una fase nuova, che può dirsi sostanzialmente ancora in atto. Il prevalere di una matrice analitica porta ad una semplificazione morfologica e alla riduzione ad un vocabolario essenziale della pittura che elimina ogni fattore dinamico e proiettivo della problematica formale-spaziale. L'artista concentra i fattori sospensivi, di tensione e di limite tra affermazione e negazione sulla microstruttura dell'esercizio pittorico mentre, una volta sparito ogni residuo di spazio illusionistico, le geometrie si assestano come autonome macrostrutture esterne ove la forma coincide con la tavola stessa, il supporto stesso si fa materia pittorica, forma e spazio insieme e la pittura diventa oggetto composto dal semplice accostamento di tavole nei dittici o nei politici o, come nelle grandi composizioni, da più moduli ripetuti.  Echi di radicalità minimaliste sono ormai evidenti proprio in questo modo di comporre l'opera per parti modulari che tuttavia ha meno a che vedere con procedimenti di ripetitività seriale minimalista quanto e più vicina invece ad una visione architettonica dello spazio di chiare e matematiche misure auree di tradizione rinascimentale. Vi e poi, in linea con l'atteggiamento minimalista, la riduzione ad una gamma ristretta dei colori grigio, rosso, avorio, ma soprattutto, a parte la dicromia in alcuni dittici, la netta tendenza al monoeromo ove le gradazioni cromatiche, come nelle ultime opere, giocate in tutte le loro possibili relazioni combinatorie, non sono che il prodotto di una nominazione esterna, sorta di sillabario della lingua pittorica o di campionatura, d'esempio di tavolozza come nella grande composizione a più colori. Qui si consuma quasi un rituale di elencazione delle convenzioni linguistiche in una duplice riflessione: non solo quella sulla pittura, intesa nella logica di una ricognizione delle sue fondamentali componenti costitutive, ma anche quella, per così dire alla seconda, sulle convenzioni linguistiche del proprio linguaggio in una sorta di riprova, di nuova verifica. Riflessione sul proprio lavoro che viene ancor più ribadita in una recente opera di carte intelate, ove le veline trasparenti usate per togliere eccesso di colore su precedenti lavori di grafite su tavola, come in un processo di stampa negativo-positivo, avevano ricevuto impresse lievi tracce della texture pittorica.  Ombra ormai della pittura, esse restituiscono, come suggerisce l'artista stessa, il tempo del processo pittorico, del suo farsi. La problematica visiva forma-spazio che nelle opere precedenti investiva il rapporto tra strutture percepite dall'occhio e costruite dalla mente, ora viene sostituita dall'interesse per il modo di costruire il dipinto e per i procedimenti pittorici cui è connesso un etfetto percettivo che non opera più per scarti ma in modo più lento e concentrato distingue le sottili differenze tonali delle singole tavole. Tuttavia si può senza dubbio affermare che mai gli intenti analitici sono fini a se stessi nè si esauriscono nell'analisi di mezzi o procedure o nel semplice gioco ottico di molta pittura analitica degli anni '60 -'70. Anche quando tutto sembra lucido, razionale, progettuale, esplicativo quasi didascalico, come negli ultimi lavori, viene sempre mantenuta una complessità, una tensione che contraddice quella dimensione, carica di senso l'operazione, ne sposta il significato. Anche in questa fase alla logica della riduzione, come la semplicità costruttiva dell'opera per parti modulari ripetute o l'intendere l'esercizio pittorico nella elementarità dei suoi fattori operativi essenziali, viene opposta in realtà una insistita, quanto paziente, lenta e laboriosa pratica del fare pittura con altre implicazioni ed esiti significativi che la allontanano sia dalle assimilazioni dei procedimenti artistici ai processi di serialità della produzione industriale, sia dalla concettualità fredda di una pura intenzionalità progettuale o della assoluta autoreferenzialità della geometria di certo minimalismo per lo più americano.  La riduzione in Mentoni non è aprioristica, come il suo minimalismo non è passiva assunzione revaivalistica. Entrambi giungono se mai come punto di arrivo di un percorso di severa riflessione sul problema del fare pittura e forse del fare arte tout court oggi, come ricerca di un luogo ancora possibile alla fine della storia e della memoria, esauritesi cioè tutte le possibili strade della ripetizione, del ripiegamento sul passato. ll modo radicale di porsi in un processo che giunge al limite di un dipingere senza gesto, del tutto implicito, quasi di autoannullamento, per Mentoni non significa definire una propria appartenenza di tendenza, quanto rispondere ad una più intima e profonda necessità che ha a che vedere con una lucida coscienza critica sull'arte che interroga il suo destino come fine e possibile rigenerazione. Pertanto l'artista sospende l'operazione in un interrogativo che si fa d'ordine assoluto e denota un atteggiamento più che analitico o concettuale-minimalista, quasi “filosofico” nel porre il senso ultimo e l'essenza stessa della pittura, che essa trova nella semplice idea del fare, nelle sue componenti operative materiali, cioe nella sua consistenza e concretezza oggettuale e nella fenomenicità ridotta alla sua purezza, come lento assorbimento di pigmenti, di sottili stratificazioni. ln esse si concentra l'energia mentale e materiale di un lavoro pittorico che cela e affonda ogni traccia fin dentro alla pelle del supporto, diventa latente nelle pieghe, nelle increspature, nei suoi lievi spessori, sospeso e quasi assorbito nel lento distillarsi dei suoi materiali, gessi, colle, resine ed infine velature diventate ormai solo completamento o complemento quasi accessorio. ll carattere della sua operazione denuncia un'idea di assenza e di vuoto. Se la dimensione del senso si giocava nelle opere precedenti sulla mancata certezza di equilibri precari sempre rimandati e sulla sospensione visiva che ne derivava ora, sparita ogni iconicità, è nella fenomenologia del fare più che del rappresentare che si concentra una nuova e più sostanziale sospensione che colloca la pittura tra impossibilità e possibilità ad essere in un ossimoro di negazione ed affermazione che si gioca nella morfologia dell'opera come presenza-assenza.  Alla pittura che nega ogni segno come presenza e si fa processo sottinteso ed impercettibile fanno da contraltare laboriose e pazienti pratiche preparatorie realizzate secondo antiche e tradizionali tecniche. ll risultato della pittura, anche nelle sue qualità coloristiche, nelle tenui variazioni di tono, deriva alla fine da una serie di operazioni e procedure indirette di approntamento preliminare, di trattamento dei materiali preparatori e delle superfici. Il colore perde ogni valenza naturalistica diventa tanto astratto e mentale quanto più si fa corpo della pittura. Trama di minimi gesti, piccoli segni e impercettibili tracce, brevi accenti e vibrazioni, indizi di energie aurorali subito assorbite in un rituale del silenzio, l'evento pittorico è cosi sospeso tra una fine e un possibile inizio che è un modo di negare la pittura per affermarla. Verifiche di una impossibilità “a dire con i segni” questi lavori appaiono nella loro essenzialità emblemi di una mancanza e, di una negazione ma nel contempo si caricano di una implicita tensione che innesca un meccanismo di aspettativa, di un'attesa quasi epifanica di un accadimento, di un evento, di qualcosa di nascosto che ancora non si rivela. Questo atteggiamento di sospensione totale porta a superare la matrice d'astrazione radicale alla Ryman o la progettualità razionale della percettività analitica di un Ad Reinhardt anche se questi possono essere i referenti più vicini al suo lavoro. Non solo, ma ciò è rafforzato dal lento procedere delle sue laboriose operazioni in cui si percepisce un quasi appassionato accudimento in quelle fasi come preliminari che sono già esse stesse pittura e che la custodiscono, la preservano, la fanno consistere, per così dire, in una condizione germinativa, in uno stato d'origine. In questo stare in bilico tra negazione ed affermazione, nell'interrogazione radicale che innesca il senso, la metafora, si consuma anche il cortocircuito tra tradizione ed avanguardie. La Mentoni percorre mentalmente e operativamente tutta una cultura storica del fare materiale che coniuga così passato e presente. Da un lato lega la pittura alle radici, nel recupero di una lontana tradizione italiana, quella operativa e tecnica delle antiche tavole medioevali di cui ci parla il Cennini nel suo libro della pittura, ma anche della misura matematica e delle modularitå rinascimentali, e dall'altro la proietta verso le forme radicali delle avanguardie minimaliste degli anni '60 - '70. Si innesca così una correlazione contraddittoriamente carica di allusioni e livelli di senso. L'interrogativo della sua pittura mentre mette in gioco il suo spessore culturale, ci riporta alla fine ad un sentimento del presente in tutta la sua interrogativa e sospesa realtà. Nella ricerca di un'essenza della pittura che essa sembra trovare nelle sue ragioni fattuali e nella sua consistenza di oggetto-struttura, la Mentoni fa trasparire, attraverso il modo riduttivo del suo procedere sotto traccia, un rispecchiamento simbolico anche esistenziale di un vuoto e di un'assenza che possono essere intesi come fine ma, come sul filo del rasoio, possono ribaltarsi al contrario in un altro possibile inizio, rilanciando la pittura sulle soglie di un'altra possibile rinascita e capacità di risignificare. Nel ribadire infatti la necessità della sua “non pittura” come forte ed emblematica presenza oggettuale la Mentoni sembra verificare un'esigenza e una volontà comunicativa più profonda che ha a che fare con l'esperienza del presente e con l'esistenza stessa e i suoi fondamentali interrogativi.



Manuela Zanelli

 

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